L’esperienza da spettatori dell’ultimo decennio di Serie A ci ha insegnato ad apprezzare quel tipo di centravanti argentini che fanno della fisicità il loro principale pregio (Icardi o Denis), esterni funambolici come il “Papu” Gómez o con la visione di gioco di Perotti, attaccanti sguscianti, con il fuoco (sacro) nei piedi come Dybala o capaci di inclinare il campo con la telecinesi come Higuaín, ma non ci aveva ancora messi di fronte alla complessità interpretativa di calciatori che sono in un certo senso ibridazioni da laboratorio, o innesti botanici, tra due o più di questi ruoli: forse è questo il motivo per il quale, se da una parte ci risulta difficile comprendere appieno giocatori come Lucas Boyé o Giovanni Simeone, dall’altra è del tutto giustificata l’attenzione con la quale ci approcciamo a loro.
Il “Cholito” soprattutto è approdato in Italia con il mood del salmone quando intraprende la risalita di un fiume: accompagnato da una parte dall’incrostazione di un cognome pieno di aspettative e dall’altra dall’aura di wunderkind che le prestazioni nell’ultimo Sudamericano U-20 gli avevano cucito attorno, ha per di più scelto come stazione di partenza dello sferragliante treno dell’hype col suo nome dipinto sulla carena non una piazza periferica (come fece il padre con Pisa) ma un hub di conclamata latinità, peraltro non senza una punta di controversia rispetto alla sua storia personale (Genoa è la controparte italiana del Boca e Giovanni è cresciuto nel River).
Giovanni non è (ancora) un calciatore associativo: le combo di passaggi che intesse coi compagni nell’arco dei 90 minuti sono sempre scarse e unidirezionali. La prima – e più cristallina – dimostrazione di una specie di isolamento elettivo è il fatto che la sua partecipazione a quello che è stato ritenuto uno dei gol più belli della storia del Banfield, la squadra nella quale ha giocato fino a giugno, si appalesi solo al momento della finalizzazione, quasi per caso (o per capacità di sfruttare il perfetto posizionamento dei pianeti).
Nell’attuale conformazione del Genoa di Jurić, Simeone è l’alternativa (o meglio il doppelgänger) di Pavoletti al centro di un attacco a tre: però Giovanni non è per niente un 9 in senso stretto, e non ha né le caratteristiche, né lo spirito né la fisicità del centrattacco capace di far salire la squadra.
Ciò non sminuisce l’impatto offensivo del “Cholito”, che è comunque piuttosto alto: per ogni tiro verso la porta avversaria (1,73 per partita) più del 50% sono nello specchio della porta (0,88 per match), e le due reti segnate complessivamente portano il tasso di conversione intorno al 25%, decisamente notevole, ben oltre le aspettative (Simeone ha un valore di xG per partita dello 0,27). Eppure per vedere Simeone at his best bisognerebbe scommettere su un suo uso meno canonico. Poco prolifico, ma molto mobile, agile e rapido-anzi-rapidissimo nelle transizioni offensive, Giovanni è potenzialmente letale grazie alle skills propulsive e a una fisicità arcigna che gli consentono di tenere gli avversari a distanza quando affonda sull’esterno.
Basta concentrarsi su come arriva a questo tiro contro il Bologna:
ma ancor di più su come arriva a preparare quel tiro.
Nato come volante de cinco, cioè la mente proattiva del gioco della squadra, il pivote cerebrale d’impostazione, la dimensione ideale del “Cholito” è quella che lo vede lanciato negli half-spaces dalle sponde di un vero centravanti, o a suggerire un alternarsi disorientante con lo stesso, un po’ come Suso l’anno scorso.
Con il rientro del “Pavo”, Jurić avrà una volta di più l’occasione di mettere il “Cholito” nelle condizioni di esprimersi al meglio. E, chissà, di fornirci uno spunto per cominciare a slegarci dalle misinterpretazioni di cosa sia, o non sia, un numero 9 oggi.