La più lieta fra le note della Lazio 2015/16 è scoprire di non aver buttato una decina di milioni. L’acquisto di Sergej Milinković-Savić ha avuto del clamoroso. La battaglia con la Viola, l’arrivo del giocatore a Firenze, il colpo di scena del rifiuto e l’approdo a Roma. Ma soprattutto, l’operazione ha viaggiato su cifre altissime per gli standard di Lotito: un investimento da grande squadra che può permettersi di sbagliare.
Tutti quei soldi, per un ventenne che aveva fatto una stagione in Belgio e una in Serbia, e nemmeno da titolare, ci si chiedeva se avessero senso. In Nazionale era stato campione d’Europa Under-19 e trascinatore nella vittoria dell’ultimo Mondiale Under-20, ma le 40 presenze complessive nei club sembravano poca garanzia.
Nello scacchiere di Pioli ha trovato spazio da subito (13 presenze). L’intuizione di schierarlo come vertice alto del centrocampo, più avanti cioè di dove aveva giocato nei club precedenti, si è dimostrata utile in entrambe le fasi di gioco. I suoi inserimenti e la sua capacità d’interdizione corrispondono bene al dinamismo che Pioli chiede ai centrocampisti. Ha poi risolto un certo imbarazzo dei centravanti nel gioco di sponda, cruciale nel sistema del tecnico.
Per farsi un’idea di cos’ha fatto prima di arrivare a Roma.
È nato il 27 febbraio 1995 a Lleida, in Catalogna. Dove suo padre, Nikola Milinković, ha militato da calciatore, prima di girovagare tra Portogallo e Austria. Anche la madre, Milana Savić, è stata una professionista nel basket, mentre il fratello Vanja, classe ’97, fa il portiere nelle giovanili del Manchester United.
Nonostante l’origine serba, a entrambi i figli è stato dato il doppio cognome, alla maniera spagnola. Eppure lui, trequartista come il padre e alto come un cestista, sulla maglia ha voluto la scritta “Sergej”.
Un anno al Vojvodina, poi il passaggio a Genk, dove si fa notare pur non giocando sempre. E la consacrazione, la scorsa estate, con il “Pallone di bronzo” al Mondiale U-20.
La combinazione tra i suoi 192 centimetri e le sue caratteristiche lo rende un centrocampista atipico. O sorprendentemente moderno. Perché la sua forza fisica si accompagna a una buona tecnica.
Allo strapotere fisico (3 contrasti aerei vinti a partita, di media, in campionato, migliore della squadra e nella top 10 della Serie A) aggiunge una certa agilità e un buon tiro da fuori. Rompe il gioco avversario, detta l’ultimo passaggio, e quando va in progressione è difficile fermarlo. Il paragone nobile che viene è col connazionale Matić, che però ha funzioni più difensive.
Il primo gol in biancoceleste, a Dnipro, nella prima gara del girone di Europa League. Di testa su calcio piazzato, qualcosa che negli ultimi anni alla Lazio si è visto di rado.
I limiti che ha mostrato in questo scorcio di stagione invitano all’indulgenza, per l’età e l’inevitabile tempo d’ambientamento. Deve frenare la sua irruenza (in campionato ha una media di 2 falli a partita e ha preso 7 ammonizioni in 13 gare) e mantenere la concentrazione quando ha il pallone (nella rosa è il giocatore al quale è stato sottratto più volte).
A inizio ottobre ha ricevuto la prima chiamata in Nazionale maggiore. Nella Lazio sembra aver già conquistato il posto da titolare. La sua mole, piuttosto che impacciarlo, pare aiutarlo a vedere lontano.